Rachel Moran, “Stupro a pagamento”: prostituzione e pornografia
Il libro “Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione” tradotto dal nostro collettivo e di recente pubblicato da Round Robin rappresenta una novità assoluta e un testo fondamentale destinato a cambiare il dibattito italiano sulla prostituzione che continua a non essere aggiornato (paralizzato nella distinzione rigida e irrealistica tra tratta e prostituzione, come se le donne prostituite che non sono vittime di tratta fossero tutte veramente libere di scegliere), continua a fondarsi su falsi miti come quello della “puttana felice”, dell'”escort di lusso”, a confondere autodeterminazione ed empancipazione delle donne e liberalizzazione dell’industria del sesso che invece, come testimoniano donne sopravvissute alla prostituzione come Rachel, rappresenta un sistema violento, patriarcale, misogino che ha come unico obiettivo quello di sfruttare, annientare i corpi delle donne ridotti a corpi di servizio per l’uso e consumo di clienti e papponi. Il nostro collettivo ha lavorato e lavora per diffondere la voce del movimento internazionale delle sopravvissute prima collaborando e traducendo documenti di SPACE International di cui Rachel è co-fondatrice e poi di molti altri gruppi provenienti da varie parti del mondo. Non sarà più possibile ignorare le voci di queste soggettività politiche da parte di femministe, attiviste, politici e media a meno di non voler censurare il racconto scomodo della “verità sulla prostituzione” per continuare a difendere lo status quo.
Il libro di Rachel Moran non è stato concepito per essere un “memoir”, come spiega l’autrice nelle pagine di apertura, non è soltanto il racconto autobiografico della propria esperienza privata, ma piuttosto l’analisi personale-politica e quindi femminista di che cosa sia veramente la prostituzione: “la commercializzazione dell’abuso sessuale”, uno “stupro a pagamento” reiterato. Il titolo del libro riprende infatti la definizione illuminante che l’autrice dà della prostituzione quando risponde alla sorella che le chiede se fosse mai stata stuprata quando era prostituita. È in quel momento epifanico che Rachel spiega alla sorella come ogni rapporto con i clienti non è mai stato veramente consenziente, che nella prostituzione il consenso viene semplicemente comprato, strappato, solo perché dall’altra parte c’è una persona la cui unica scelta è quella di sopportare l’abuso per sopravvivere.
Il testo è diviso in tre parti che prendono in esame tre fasi della vita di Rachel così come sono state scandite dall’esperienza della prostituzione: gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza prima dell’ingresso nel mondo violento della prostituzione che vengono raccontati per spiegare il suo background di povertà ed emarginazione. L’obiettivo dell’autrice è quello di spiegare come la prostituzione non accada mai per caso o per “libera scelta” tra tante scelte possibilli, ma sia invece una sorta di normale, scontato esito di una vita ai margini, di stigma subito ancora prima di essere la donna che puoi stuprare pagando, una sorta di lettera scarlatta dell’esclusione sociale. La società ha deciso, ben prima del ragazzo pappone che la indurrà a vendere il suo corpo per avere un tetto sulla testa, che l’unica cosa che avrai a disposizione per sopravvivere sarà il tuo corpo: perchè la discriminazione socio-economica è uno dei fondamentali fattori d’ingresso nella prostituzione e non considerare questo aspetto centrale significa non conoscere il fenomeno per quello che è, negarne la sostanza primaria. La seconda parte riguarda gli anni in cui Rachel è stata prostituita dai 15 ai 22 anni, un’esperienza nella quale ha attraversato vari “settori” e luoghi della prostituzione : la prostituzione di strada, l’escorting, lo strip-tease, il bordello, il nightclub, lo studio pornografico. Situazioni e luoghi dove non c’è alcuno spazio per l’autodeterminazione, ma la molla principale che guida le scelte di Rachel e le sue coetanee minorenni è la disperazione economica, la necessità di liberarsi della condizione di senza tetto, la dipendenza da droghe per sopportare una vita di privazioni e violenze continue. La terza parte analizza invece l’uscita dalla prostituzione e la lenta faticosa ricostruzione della propria vita svelando con precisione chirurgica quelli che sono i danni a lungo termine della prostituzione, di come uscire dal trauma comporti sofferenza, lotta, ferite che restano tra cui la difficoltà di ritornare a vivere in un mondo alieno, quello delle cosiddette persone “normali”, le non-prostituite che giudicano, escludono, emarginano o semplicemente sono incredule di fronte ad un vissuto che la società continua a non comprendere se non per stereotipi e false credenze. Ogni capitolo fonde il racconto privato delle proprie vicende personali con un inquadramento politico di ampio respiro: Rachel prende in esame vari modelli legislativi adottati nel mondo per affrontare il fenomeno della prostituzione: dal modello nordico abolizionista sostenuto e promosso da SPACE e altre associazioni di sopravvissute al fallimento del modello regolamentarista tedesco e neozelandese che ha avuto come unico risultato quello di far crescere il mercato del sesso in maniera esponenziale a detrimento dei diritti delle donne prostituite: aumento della tratta per far fronte alla domanda, potere ai papponi proprietari di bordello e agenzie di escort che dominano il mercato, dettano legge, imponendo tariffe e prestazioni alle donne che hanno perso ogni autodeterminazione e capacità di gestione del proprio corpo. Con grande lucidità critico-analitica Rachel smantella i falsi miti sui quali si regge la narrazione della prostituzione come “libera scelta”, “sex work” ovvero “lavoro come un altro”, espressione della sessualità libera e liberata delle donne.
Vogliamo proporvi una serie spunti di riflessione a partire dall’analisi di Rachel sui falsi miti sulla prostituzione a cominciare dal legame tra prostituzione e pornografia.
Il brano che abbiamo scelto come inizio di questo percorso è tratto dal capitolo 8 (“Strati di negatività”) dove l’autrice spiega l’intreccio tra prostituzione e pornografia sfatando il mito della pornografia come espressione di empancipazione e autodeterminazione sessuale, mito portato avanti anche dalle femministe liberal, con cui l’industria del sesso occulta quello che accade realmente: sono moltissime le ragazze minorenni come la stessa Rachel ad essere sfruttate, ragazze che allo stesso tempo sono prostituite per strada o nei bordelli e sono sfruttate anche come spogliarelliste. Rachel ci rivela come prostituzione, strip-tease e pornografia siano tutti settori di un’unica industria dove il potere resta nelle mani dei vari papponi che conoscono la preferenza dei clienti per le ragazze minorenni e gli garantiscono un ricambio continuo di “carne fresca”. Un’industria che lucra sulla disperazione economica e l’emarginazione sociale di ragazze che come Rachel sono scappate da case di accoglienza, provengono da famiglie disfunzionali, sono spesso doppiamente sfruttate da un fidanzato-pappone. E’ possibile ordinare il testo integrale sul sito della casa editrice Round Robin oppure qui .
Quando ripenso alla sera in cui arrivai a Leeson Street, nell’autunno del 1992, la mia mente mi riporta sempre indietro a quell’istante in cui osservai l’immagine del gatto con la coda attorcigliata attorno a una delle gambe del cavalletto, perché emanava un guizzo di energia negativa che mi attraversò e che non fui in grado di capire. L’immagine, come scoprii in seguito, rappresentava l’essenza di quello che accadeva lì dentro. Era uno studio pornografico.
Non ricordo da quanti uomini sono stata fotografata lì dentro, e in realtà non voglio saperlo. Il copione era che arrivava un uomo con la sua macchina fotografica e con un rullino vergine. Pagava una cifra prestabilita, penso fosse intorno alle novanta sterline, e dopo aver finito di fotografare una qualunque delle ragazze che aveva scelto, poteva farle qualunque cosa pagando un prezzo aggiuntivo. Poi consegnava il rullino al pappone che lo avrebbe sviluppato, Dio sa dove. Qualcuno presiedeva all’operazione, ovviamente, perché questo succedeva negli anni precedenti alle camere digitali. Le fotografie dovevano essere sviluppate da qualche parte, e la maggior parte delle ragazze che vi comparivano erano minorenni.
Mi ricordo di un uomo in particolare, visto che non sembrava interessato a scattare foto esplicite: il che non accadeva quasi mai. Mi disse che potevo scegliere la posa che volevo e non mi ordinò mai di togliermi i vestiti. Ricordo che mi sedetti in bilico sul davanzale della finestra con la testa poggiata al muro con il mento inclinato e gli occhi chiusi come fossi profondamente assorta nei miei pensieri, e tutto a un tratto divenni, in effetti, assorta nei miei pensieri; immaginavo di essere una modella, che nell’agenzia di moda andava tutto bene e che quella per me era soltanto una giornata di lavoro. Lo scatto della sua macchina fotografica mi riportò alla realtà. Mi disse che sarebbe stata proprio una bella foto. Mi sentii ferita, stuprata in un modo nuovo. Nel suo rullino fotografico aveva immortalato qualcosa della vera me stessa. Quella fu per me una specie di nuova lezione sull’importanza di non abbassare mai la guardia.
Alcune donne non hanno problemi con la pornografia. Ma io sì. So, proprio perché sono stata fotografata in pose sessualmente esplicite, che c’è molto altro dietro a quelle immagini patinate che molte persone passano il tempo a guardare. Si tratta di un’attività umiliante, basata sullo sfruttamento ed estremamente dannosa per le donne, sia per quelle che si trovano dentro sia per quelle che si trovano fuori dall’industria del sesso.
Nello sforzo costante di ripulire la fotografia, ci viene descritta come espressione di “emancipazione sessuale” e come una forma di “autodeterminazione sessuale”. Per me questo non vale nell’essere fotografata nuda e posare per una foto più di quanto non valga nell’essere scopata nuda e posare per una foto. All’epoca, lavoravo assieme a una mezza dozzina di ragazze; tutte all’inizio o a metà della loro adolescenza. Alcune le conoscevo dai tempi degli ostelli, altre le avevo conosciute tramite le ragazze che avevo conosciuto negli ostelli. Quello che facevamo in quel seminterrato squallido e gelato era la stessa cosa che facevamo fuori in strada: prendevamo l’unica cosa che valesse la pena di essere colta nelle nostre condizioni, la possibilità di averci un tetto sopra la testa e del cibo nelle nostre bocche. Quella era l’unica autoaffermazione evidente nelle nostre vite. Una ragazza di diciassette anni con cui lavoravo (che aveva subito violenza sessuale da piccola) aveva lasciato il suo appartamento non appena era rimasta incinta perché il suo affittuario non la piantava di volere fare sesso con lei. Pensava che se avesse dovuto continuare a subire molestie sessuali da parte di uomini più anziani, tanto valeva allora farsi pagare. Era un ragionamento che molte di noi arrivavano a fare.
La realtà costante di essere sfruttate da uomini che ricoprivano una posizione sociale più elevata della nostra era inesorabile e, dal momento che non potevamo sottrarci ad essa, scegliemmo di inquadrare i termini di quello sfruttamento in un vocabolario finanziario, dato che quelli erano gli unici termini ai quali avevamo accesso e dai quali potevamo trarre un certo beneficio. Il tentativo di inquadrare la prostituzione nell’ambito dell’autodeterminazione sessuale semplicemente non regge, perché la nostra decisione non aveva nulla di sessuale, era unicamente dovuta a questioni economiche. L’elemento sessuale era per noi un supplizio e non una fonte di piacere, e se ci fossimo trovate in condizioni che ci avessero permesso di esercitare una reale autodeterminazione, il nostro pappone si sarebbe ritrovato con un bordello vuoto e i nostri clienti con una pila di rullini vergini.
Proprio perché mi sono ritrovata dall’altro lato della macchina fotografica, onestamente, non vorrei e non potrei mai avere una relazione con qualcuno che faccia uso abituale di pornografia. Per qualunque donna che pensi che il porno sia di cattivo gusto, penso sia un ottimo consiglio evitare che qualcun altro la convinca del contrario. Certe volte il rispetto di chi siamo in quanto esseri umani necessita di delimitare i confini di ciò che siamo disposti ad accettare. Conosco per esperienza il danno e l’umiliazione dello strip-tease e della pornografia. Non sono delle industrie innocue. E, ad ogni modo, non sono industrie di tipo diverso; appartengono alla medesima e unica grande macchina della prostituzione, un meccanismo che riduce fortemente il valore delle donne e lo fa piazzando al suo stesso vertice e nel suo stesso centro nevralgico la mercificazione dei loro corpi.